Ma perché?: 161 | Ma perché si parla di rainbow washing?
Radio Deejay 8/3/23 - Episode Page - 8m - PDF Transcript
Il marketing per va delle nostre vite.
Tutto o quasi ciò che vediamo attorno a noi è il frutto di un lungo lavoro di professionisti
della comunicazione e del marketing, appunto.
Perfino l'impegno, l'attivismo, soprattutto quello sui social, spesso è figlio di un preciso
progetto di comunicazione.
Ora, noi lo chiamiamo posizionamento, dici quella cosa, così vieni inserito all'interno
di quel target di riferimento a cui desite riparlare, perché parlare è un business,
soprattutto se lo si fa per un brand.
E i brand, alla volta, hanno necessità di comunicarci, di posizionarsi, così da vendere il loro
prodotto al target di riferimento.
E dunque, se il brand produce pantofole ergonomiche per persone anziane, dirà e farà cose che
possano centrare i valori in cui generalmente si riconoscono le persone anziane.
Se invece il target è 18 o 34, le parole d'ordine saranno chiaramente altre, perché
diversi saranno i valori di riferimento.
E dunque, nel mondo della comunicazione e del marketing, si sente sempre più spesso
parlare di rainbow washing.
Ma perché?
Io sono Marco Maesano e ogni giorno, a sé macchine sa più di me, provo a ripartire
dalle basi per rispondere alla domanda più semplice del mondo.
Ma perché?
Prima forze, non l'ho detto abbastanza chiaramente.
Decidere di comunicare bene e cioè farlo sapendo a chi si vuol parlare non vuol dire
necessariamente solo cercare di guadagnare i più soldi, per carità.
In ballo c'è anche la reputazione.
Io brand o io istituzione, decido di dire certe cose perché voglio che un preciso
target di persone di riferimento mi percepisca come vicino a loro.
Voglio in un qualche modo che pensino bene di me.
E magari lo faccio chissà per coprire altre cose che mi riguardano, non proprio ragguardevoli.
Cosa voglio dire?
La comunicazione è senza dubbio uno dei settori più in espansione dei nostri tempi.
Saperlo fare bene significa ottenere più successo in meno tempo.
In ballo, appunto, ci sono denaro e reputazione, non poco.
Ecco, in questo campo, in quello del marketing, sempre più spesso si sente parlare di rainbow
washing.
Ma perché?
A rispondere alla domanda di oggi è Pasquale 40, giornalista ed eversity editor per la
stampa.
Questa è la risposta che mi ha mandato.
Si parla di rainbow washing perché dopo il mese del Pride, il mese di giugno, ci si
chiede dove siano finite quelle aziende che utilizzano il rainbow washing nelle loro pubblicità.
L'hanno fatto solo per attirare i consumatori o ci credevano realmente.
Ma come si fa a riconoscer il rainbow washing?
Possiamo verificare se si stanno politiche inclusive all'interno di queste aziende per
i propri dipendenti, se l'azienda coinvolge attivamente la comunità rainbow, se lavori
insieme agli attivisti, se finanzi alle associazioni.
La credibilità può essere compromessa se allo stesso tempo questa azienda finanzi a partiti
o politici contrari ed irritti o se inquina l'ambiente o se sfrutta altre comunità
oppresse.
Quello che voglio dire è che se non c'è coerenza, se ci sono politiche contraddittorie,
probabilmente questa azienda, dopo aver sfruttato i simboli associati alla comunità rainbow
baleno, passerà al prossimo target.
Sì, perché le persone LGBT qui a plus sono considerate un target strategico perché
avrebbero il pink dollar, lo chiamano il dollaro rosa negli Stati Uniti.
Cioè le coppie dello stesso sesso avrebbero più soldi.
Una situazione chiamata anche dink, un acronimo inglese che sta per double income no kids.
Una situazione in cui due partner avrebbero entrambi un reddito e non hanno figli.
Uso il condizionale perché l'esperienza delle famiglie arcobaleno, anche in Italia,
testimonia che anche le coppie omosessuali decidono di mettere su famiglia, così come
ci sono sempre più coppietero sessuali che di figli non vogliono proprio sentirne parlare.
Ma le critiche, quando si parla di rainbow washing, non sono solo alle aziende ma anche
alle associazioni che intascano i loro soldi.
Durante i prai, da Milano come a Roma, sono stati esposti cartelli critici soprattutto
da parte dei movimenti più antagonisti che accusano le associazioni di aver venduto
l'arcobaleno al capitalismo.
Eppure non tutte le aziende fanno rainbow washing, c'è chi sostiene realmente la comunità.
Ma il problema oggi in Italia mi pare soprattutto un altro, cioè che ci sono ancora molte aziende
che preferiscono non partecipare al Pride per la paura di esporsi, temendo di perdere
i propri clienti.
E quindi non fanno nulla nemmeno per i propri dipendenti LGBT qui a plus, come se la cosa
non le riguardasse.
Per questo esistono associazioni in Italia come Parks che aiutano i datori di lavoro
a promuovere pratiche rispettose della diversità.
Ma il problema esiste, secondo un rapporto a Istatunar, il 61% delle persone LGBT qui
a plus nasconde il proprio orientamento sul lavoro, il 61% e le aziende fanno ancora
troppo poco.
Eppure i vantaggi del diversity management sono noti, cioè le persone felici di lavorare
per un'azienda perché si sentono pienamente se stesse e sono realizzate sul posto di lavoro,
sono anche le più produttive, quindi non è solo un fatto etico, lo spiega bene li
budget, docente di economia all'università del massasciusse, che nel suo libro economia
qui repubblicato dal saggiatore spiega come il costo dell'odio gravi sul pilo degli
stati di oltre un punto percentuale l'anno.
Leggi discriminatori e pratiche di marginazione hanno un impatto negativo sul lavoro, salute,
consumi e ricchezza della società per tutti, quindi servono più aziende che si impegnino
concretamente ogni giorno a partire dai propri dipendenti e meno rainbow washing.
Eppure non dobbiamo aspettarci che siano le aziende a cambiare il mondo, non dovremmo
essere così ingenui da ignorare che l'obiettivo finale delle aziende è il profitto.
Certo le aziende possono fare la propria parte, certamente utile averle dalla propria parte,
ma l'impegno per i diritti coinvolge soprattutto le istituzioni, il Parlamento che fa le leggi,
i media e non da ultimo l'attivismo, la mobilitazione sociale, noi che votiamo, siamo noi a decidere
con le nostre scelte se essere protagonisti del cambiamento sociale che vogliamo vedere
nel nostro Paese.
Grazie a Pasquale 40, come dire, il rainbow washing è a sua volta figlio di altre pratiche
di washing, cioè di lavaggio, proprio letteralmente, io dico delle cose che so che possono far
piacere ad un certo gruppo di persone in qualche modo, quindi copro che so le malefatte
che ho fatto appunto in passato, io come istituzione o io come brand, peraltro questa è una pratica
che mettono e hanno messo in piedi in passato anche diversi Paesi, no, accusati in un qualche
modo di fare pink washing così da nascondere certe azioni e certe pratiche avvenute in
quel Paese, appunto.
Io vi ringrazio per essere rimasti con me anche oggi e come sempre vi do appuntamento
a domani.
Ciao!
Ma perché è un podcast scritto da me, Marco Maisano, riprese e montaggio Giulio Rondolotti,
musici originali Matteo Cassi, supervisione tecnica Gabriele Rosi, responsabile di produzione
Denny Stucchi, una produzione One Podcast.
È l'ico della CIA, lo puoi ascoltare sull'app di One Podcast e su tutte le principali
piattaforme, una produzione dream and dream per One Podcast.
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Il marketing pervade le nostre vite. Tutto, o quasi, ciò che vediamo attorno a noi è il frutto di un lungo lavoro di professionisti della comunicazione. Perfino l’impegno, l’attivismo, soprattutto quello sui social, spesso è figlio di un preciso progetto di comunicazione. Ora lo chiamano posizionamento: dici quella cosa in modo da essere inserito all’interno di quel target di riferimento a cui desideri parlare, perché parlare è un business, soprattutto se lo si fa per un brand. E i brand a loro volta hanno necessità di comunicarsi, di posizionarsi, così da vendere il loro prodotto al target ideale. Ed è in riferimento a loro che ultimamente si sente sempre più spesso parlare di rainbow washing. Ma perché? Ne parlo con Pasquale Quaranta.
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